La strada

di Julia Shelley |

Gabby entrò in auto. Il gelo di inizio dicembre aveva letteralmente congelato il cruscotto e i tergicristalli giacevano lì, inerti, come due bacchette di ghiaccio.
L’abitacolo era completamente vuoto.

Era sola, finalmente.

Le lacrime iniziarono a solcarle il viso pallido e smunto dal dolore e dall’umiliazione: quelle emozioni bruciavano dentro di lei come lame di ferro incandescente.
Non importava quante volte i suoi amici, o sua madre, le avessero ripetuto che non era colpa sua, che nulla di quello che era successo dipendeva da lei o dal suo valore come persona. Il pensiero di quell’ultimo mese, trascorso in balia di ansia e speranza, alla dipendenza totale degli umori di un’altra persona, mentre i suoi, di umori, venivano sistematicamente ignorati, la torturava e la sfiniva.
Sapeva che era giusto così, che quella situazione avrebbe deteriorato in modo drastico la sua salute mentale.
Nessun uomo meritava di distruggerti. Ma quello, di uomo, c’era quasi riuscito. L’aveva sommersa con i suoi problemi, problemi gravi, certo, problemi che dovevano fungere da giustificazione per ogni mancanza di rispetto, ogni comportamento diretto in realtà ad annientare l’altro e la sua autostima, per rinvigorirne una inesistente probabilmente da tempo.
La cosa più straziante era la sensazione bruciante, lacerante che il porre la parola fine a questa situazione aveva lasciato impressa dentro di lei: il desiderio divisivo di tornare indietro, di capire, di riprovare, mentre dall’altra parte c’era la razionalità, strisciante, sibilante, che imponeva la rinuncia. Perchè nulla poteva essere risolto.

Era questo, si disse Gabby, il rovescio della medaglia della manipolazione. Il desiderio umiliante, ma totalizzante, di ritornare là dove avevi trovato solo dolore. Ma come spiegare a chi non c’era mai passato che quel dolore, in realtà, era tutto ciò che in quel preciso momento agognavi, annaspando come un naufrago in balia dell’oceano?
Il dolore arrivava a ondate e in quel preciso istante Gabby credeva che sarebbe morta. Non vedeva una via d’uscita da quella situazione. L’unica via percorribile era tornare là, alla sua base sicura.

Si sentiva annientata.

Con la netta sensazione di essere sul punto di cadere in un baratro senza ritorno, Gabby mise in moto l’auto. I fari si accesero. La decisa luce gialla fendeva l’oscurità, evidenziando i contorni rassicuranti della casa di sua madre. Ingranò la prima e la macchina abbandonò lentamente il vialetto, incerta e cigolante, quasi in una bizzarra imitazione del suo stato d’animo.
Sentiva le lacrime scendere calde e senza sosta, quasi fino a bruciarle le guance.
L’auto nel frattempo macinava chilometri su chilometri.
Pensò quasi di fermarsi, perché vedere chiaramente la strada buia iniziava ad essere difficile e soprattutto non si sentiva in alcun modo in grado di dominare quel cumulo di macerie e disperazione che sentiva crescere dentro di sé di minuto in minuto. Tuttavia, continuò a guidare. Andare avanti le dava una strana sensazione di sollievo.
Curvò leggermente verso destra, schivando di poco un masso caduto al centro della strada. Sulla carreggiata opposta incrociò ben poche auto. Le persone non avevano alcun motivo per uscire di casa con quel freddo glaciale. Dietro di lei, la totale assenza di fari al seguito. Ciò le provocò una leggera sensazione di inquietudine. Guidare di notte, con il ghiaccio, su strade deserte non rientrava esattamente nella sua comfort zone.
Un suono improvviso e inaspettato la riscosse dalla nube scura dei suoi pensieri. Il suo telefono stava squillando. Allungò una mano sul sedile del passeggero, dove lo aveva appoggiato, e rispose alla chiamata, attivando il vivavoce.
Fu una questione di pochi secondi, ma furono sufficienti perché Gabby non si accorgesse che al posto di prendere la deviazione sulla sinistra che l’avrebbe condotta verso casa, aveva attraversato tutto l’incrocio, proseguendo invece dritta, verso nord.
“Mamma?” Rispose, cercando di dissimulare la voce rotta dal pianto. Non era il caso che sua madre scoprisse che stava guidando in quel buio accecante, in preda alla disperazione più totale.
“Sei arrivata?” La voce di sua madre era calda e rassicurante. Si sentì inevitabilmente un po’ meglio.
“Sì, quasi.” Fu in quel momento, nel mormorare quella risposta distratta, che se ne accorse.
Non era sulla solita strada.
“Mamma, posso richiamarti più tardi?” Riagganciò, senza attendere una risposta. L’auto rallentò e i freni fischiarono debolmente, quasi in segno di protesta. Quella macchina non avrebbe superato la prossima revisione.
Si guardò attorno, confusa. Non aveva la minima idea di dove si trovasse.
La strada restava lì, di fronte a lei, le due carreggiate completamente vuote, illuminate solo dalla luce gialla emessa dai fari della sua auto. Un cartello blu sulla sinistra recitava “Blue Highway” e una scritta bianca, prodotta in un secondo momento da qualche vandalo, aggiungeva “bruciate all’inferno stronzi”.
Rimise in moto l’auto e, gettando un’occhiata di controllo nella carreggiata opposta, nel caso ci fosse un altro veicolo in arrivo, invertì la marcia e ricominciò a viaggiare nella direzione opposta.
Prima o poi avrebbe ritrovato l’incrocio e la strada di casa.
Percorse quelli che le parvero tre o quattro chilometri, quando notò qualcosa che le fece stringere lo stomaco in una morsa stretta e soffocante.

Un cartello.

Blue Highway.
Bruciate all’inferno stronzi.

In un primo momento pensò di aver letto male. Era impossibile che fosse tornata al punto di partenza. Aveva percorso chilometri nella direzione opposta, lungo una strada completamente dritta. Incerta sul da farsi, continuò a proseguire lungo la strada. Allungò la mano verso il cellulare e aprì Google Maps. Tra i suggerimenti nella barra di ricerca comparve immediatamente l’indirizzo di casa sua, tuttavia, non appena premette il dito su di esso, lo schermo si fece bianco e al centro comparve una scritta rossa: rete non disponibile.
Gabby lasciò ricadere con stizza il telefono sul sedile del passeggero. Quella serata andava solo peggiorando.
Decise di continuare nella stessa direzione: effettuare una nuova inversione di marcia non avrebbe avuto nessun senso, l’avrebbe solo confusa ulteriormente. E poi, era sicura di essere tornata indietro. A un certo punto avrebbe incontrato delle case, qualcosa, o comunque il telefono avrebbe riguadagnato un minimo di connessione.
Si guardò attorno, in cerca di un punto di riferimento: la strada si distendeva dinnanzi a lei. Dritta, qualche leggera curva verso destra, o verso sinistra. Nessuna deviazione e nessun incrocio in vista. Le due carreggiate erano circondate da una fitta vegetazione: il bosco se ne stava lì, testimone tetro di quella notte gelida e senza stelle. Gli abeti, alti e possenti, dominavano la scena. Enormi macchie scure a stento riconoscibili.
Una sensazione di inquietudine e di malessere diffuso iniziò a farsi spazio dentro Gabby. Si sentiva osservata. Cercò di scacciare quel pensiero sgradito, ma nulla potè contro l’ansia che aveva iniziato a stringerle la gola, affaticandole il respiro.
Spostò nuovamente lo sguardo, dalla fitta vegetazione, al centro della carreggiata. In quella frazione di secondo in cui i suoi occhi tornavano a fissarsi sul grigio asfalto sfiorarono anche distrattamente lo specchietto retrovisore. Il suo cuore si fermò.


Due occhi rossi la fissavano, cattivi, dal buio del sedile posteriore.
Il terrore la paralizzò. Era incollata al sedile. Incapace di fare altro che non fosse continuare a procedere dritta, un piede premuto sull’’acceleratore, quasi nel tentativo di fuggire via da quella visione terrificante.
Fu questione di un istante.
La morsa della paura ancora le stringeva la gola, ma quando riportò lo sguardo sullo specchietto gli occhi erano scomparsi. Non c’era più nessuna traccia di quella cosa mostruosa intravista poco prima. Solo il buio della notte, oscuro e penetrante, che inghiottiva l’abitacolo dell’auto come un animale affamato.
Il primo pensiero che attraversò la mente di Gabby fu che probabilmente stava davvero cadendo nel baratro senza ritorno della follia. Tuttavia, l’idea di aver in qualche modo immaginato e creato da sé quell’immagine orribile era quasi rassicurante.
Tenne lo sguardo ben fisso sulla strada, che proseguiva curvando dolcemente verso destra. Gli alberi si facevano sempre più fitti e imponenti, il bosco sembrava guadagnare sempre più terreno sul cemento.
Nessuna casa, nessun segno di civiltà in vista.
L’ansia tornò prepotentemente a farsi largo nell’animo di Gabby.

Blue Highway.
Bruciate all’inferno stronzi.”

Il cartello era di nuovo lì. A lato della strada. Questa volta Gabby riconobbe anche l’abete con il tronco leggermente inclinato verso sinistra che nasceva a pochi metri di distanza.
Non c’era nessun dubbio questa volta. Era tornata al punto di partenza.
Il veicolo si fermò del tutto al centro della carreggiata. Gabby quasi non si accorse di essersi fermata.
Sto sognando, si disse.
Controllò nuovamente il cellulare appoggiato sul sedile del passeggero. Il segnale era ancora assente: non le era in alcun modo possibile capire dove si trovasse e come fare a tornare indietro.
Il suo cervello continuava insistentemente a rifiutarsi di accettare quella realtà assurda. Con un gesto deciso, Gabby invertì nuovamente la marcia e iniziò a proseguire nella direzione opposta. Passò oltre al cartello e, per esserne ulteriormente sicura, si voltò indietro. Lo vide allontanarsi sempre di più e dopo qualche istante sparire del tutto alla vista.

Se l’era lasciato alle spalle.

Continuò a guidare, cercando di regolarizzare il respiro, nel tentativo di placare l’ansia che le attanagliava lo stomaco.
I chilometri si susseguivano. Uno dopo l’altro. La strada si perdeva nel bosco: gli abeti, l’oscurità, la fitta vegetazione…
La mente di Gabby si rifiutava di accettarlo, ma lo sentiva: non stava andando da nessuna parte. Quella era la stessa esatta strada che aveva percorso poco prima, più volte, prima di incrociare nuovamente il cartello.
La paura che provava a quel punto era così intensa e profonda da scacciare pure il dolore lacerante che l’aveva accompagnata per tutta quella giornata infinita: il pensiero fisso sull’uomo che l’aveva distrutta era diventato un tenue sottofondo. L’inquietudine e il terrore prendevano lentamente il sopravvento: ma Gabby si opponeva con tutte le sue forze.
Ma no, questa storia che si stava creando in testa era assurda. Era solo molto stanca e confusa, presto avrebbe ritrovato la strada di casa.

All’improvviso due fari sbucarono dall’oscurità. Una macchina. Finalmente un segno di vita. L’auto procedeva a velocità sostenuta sulla carreggiata opposta.
Speranzosa, Gabby rallentò, abbassò il finestrino e iniziò a sbracciarsi, facendo segno al guidatore sconosciuto di rallentare. Forse avrebbe potuto chiedere indicazioni e uscire finalmente da quell’incubo.
L’auto si avvicinava sempre di più e iniziò effettivamente a rallentare. Gabby si avvicinò lentamente alla linea bianca che separava le due carreggiate, pronta ad accostarsi. L’altro veicolo era così vicino da poterne leggere chiaramente la targa. A quel punto, alzò gli occhi ad incontrare quelli di chiunque fosse alla guida.

Occhi rossi.
Grandi occhi rosso sangue fissi su di lei. Erano occhi enormi, infossati in un viso traslucido, bianco come il latte, la pelle tirata fino a delineare nettamente le ossa sottostanti. Pochi increspati capelli ricoprivano leggermente il capo ugualmente traslucido. La pelle quasi brillava alla luce opaca della luna.

Gabby urlò. Un grido acuto, disperato, colmo di cieco terrore.
La sua mente era completamente svuotata dalla paura.
In preda al panico più nero, premette violentemente il piede destro sull’acceleratore. La macchina schizzò prepotentemente in avanti, ma Gabby aveva perso ogni controllo: sbandò, rischiando di finire fuori strada, e fu solo per l’improvviso risveglio dei suoi riflessi se riuscì a evitare di finire dritta contro uno di quei grossi abeti.
Una volta recuperato il controllo dell’auto, si ritrovò a combattere contro l’improvviso impulso di vomitare. Si sentiva malissimo, stordita. Non sapeva più quale realtà stesse abitando: quello doveva essere un sogno.
Per l’ennesima volta si ritrovò a proseguire. Ogni molecola del suo corpo le gridava di fuggire, ma più avanzava lungo la strada, fendendo l’oscurità, più si sentiva in trappola.

Blue Highway.
“Bruciate all’inferno stronzi.”
L’abete piegato.

A quel punto, Gabby stava piangendo. Lacrime differenti rispetto a quelle versate appena mezzora prima sul vialetto di sua madre. Queste lacrime erano la reazione animale di una creatura indifesa, l’equivalente, nelle bestie, dell’ accasciarsi al suolo fingendosi morti alla comparsa di un predatore.
Aveva perso completamente il controllo, la sua mente non era più in grado di offrirle spiegazioni logiche e razionali a quello che stava vivendo.
Si trovava in una gabbia. E non aveva possibilità di uscirne.
Gabby continuava a guidare, a quel punto procedeva in automatico. Sapeva di non avere una reale direzione. Guidava e basta. Guidava perché non c’era nient’altro che potesse fare.
Attorno a lei il bosco sembrava essersi animato: mentre procedeva a velocità sostenuta lungo la carreggiata, ombre scure sgusciavano guizzanti tra gli alberi imponenti. Erano figure bizzarre, che Gabby riusciva a intravedere a malapena, prima che scomparissero nel buio della foresta.
A tratti aveva l’impressione di udire delle risatine infantili arrivarle da dietro la schiena. Ma l’incredulità e il terrore erano tali da cancellare la possibilità di ogni tipo di reazione. Era come se, continuando a guidare, con lo sguardo fisso sulla strada grigia, si rifiutasse di accogliere e accettare l’orrore che stava vivendo.

Una figura scura.
Due gambe sottili come stecchini.
Attraversava la carreggiata saltellando, spostando bizzarramente il peso da un piede all’altro.

Gabby inchiodò.

La creatura fermò per qualche istante la sua marcia. Il capo inclinato, come a voler nascondere il viso ai fanali dell’auto.
Il respiro di Gabby si era fermato.
All’improvviso quella cosa aveva ripreso la sua camminata barcollante.

Ehehehe!”

Un’altra risatina. Questa volta l’aveva sentita chiaramente. Proveniva da dietro le sue spalle.
Si voltò di scatto, ma il sedile posteriore era completamente vuoto.
Quando tornò a guardare la strada, quasi scoppiò in una risata isterica.

C’era il cartello in legno scuro.
Blue Highway.
C’era la scritta bianca.
Bruciate all’inferno stronzi.
E c’era l’abete piegato.

Rise per davvero. Le lacrime avevano ripreso a macchiarle il viso pallido, mentre rideva a pieni polmoni, una stanchezza senza precedenti a stordirla. Era sfinita. Arresa.
Arrestò l’auto.
Aprì la portiera.
L’aria ghiacciata le pizzicò la pelle come tante piccole punture di vespa, ma Gabby era incapace di percepire qualunque cosa. Voleva solo riposare.
Scese dall’auto e se ne restò lì, impalata nel bel mezzo della carreggiata, i denti che battevano e gli arti intorpiditi dal gelo.
Fissava un punto dritto davanti a sé.
Occhi rossi.
Una figura perlacea, dalla pelle traslucida, procedeva sicura verso di lei. Era una marcia quasi eterea, la sua. Sembrava avanzare sollevata di qualche centimetro da terra. Non si muoveva camminando. Anzi, non era nemmeno sicura che avesse le gambe.
Gabby restava ferma, a guardarla. Non c’era più scampo, lo sapeva: che senso avrebbe avuto rientrare in macchina e scappare? E poi, lei era stanca.
La creatura era a pochi metri da lei: adesso Gabby poteva osservare con chiarezza la pelle tirata, tesa a tal punto da riuscire a immaginare con chiarezza l’aspetto del teschio sottostante, e il capo canuto.

Era arrivata. Era di fronte a lei.

“T-ti prego.” Gabby non sapeva neppure per cosa stesse pregando: perché la risparmiasse, o forse perché la aiutasse a far finalmente finire tutto quanto?

Lei allungò una mano scheletrica.
Gabby tremava violentemente, come una foglia al vento.
Le toccò la fronte.
“Sei scesa”, sussurrò.
E Gabby non seppe più nulla.

Nero.
Poi la luce abbagliante di due fanali che si accendevano, pronti a fendere la notte scura. Il rombo dell’auto che si metteva in moto.
La ragazza strizzò gli occhi, allucinata, e si guardò intorno: c’era lei, nella sua auto, pronta ad abbandonare il vialetto di sua madre. Ma questa volta, nessun dolore, nessuna disperazione, nessun desiderio di tornare indietro.

Era scesa.


Julia Shelley

Dall'animo estremamente romantico, Julia è un'amante delle storie di spettri e delle atmosfere surreali dei luoghi abbandonati. L'horror è il suo pane quotidiano sin da bambina.