Qualche altro giorno pt.2

di Charlie Foo |

QUESTO RACCONTO É PARTE DELLA “TRILOGIA DELL’UNIVERSITÀ”: clicca qui per leggere la parte 1.

Quando quel mattino mi svegliai, gli uccellini cinguettavano già e il sole splendeva allegro nel cielo. Aprii gli occhi a fatica e guardai l’orologio pigramente. Erano le nove e l’appello per il mio esame di letteratura inglese era alle nove e mezza dall’altra parte della città. Non sarei mai arrivata in tempo; carica di disperazione, mi vestii con quello che trovai nella stanza al buio, senza neppure accendere la luce: jeans, maglione, scarpe, borsa con dentro gli appunti per il ripasso dell’ultimo minuto e di corsa alla fermata del tram per raggiungere l’università. Ovviamente non avevo dietro alcun biglietto per la corsa.

Seduta sui sedili sballonzolanti del tram, pensavo a quante possibilità c’erano che il professore accettasse le mie scuse per il ritardo e mi permettesse di dare l’esame in tranquillità. Tirai fuori blocchetto e libri e cercando di tenerli in equilibrio sulle gambe, provai a ripassare le ultime cose. Riuscivo a malapena a concentrarmi sulle parole che avevo sotto gli occhi, in realtà cercavo di richiamare alla mente il momento in cui, nel sonno, avevo spento la sveglia ed avevo ripreso a dormire, ma proprio non ricordavo. Un signore pelato, corpulento e senza alcuna borsa, si sedette sul sedile vuoto accanto a me. Studiai con la coda dell’occhio le sue espressioni e mi convinsi che si trattasse di un controllore di biglietti del tram in borghese. Iniziai ad agitarmi sul sedile in preda al panico, poi cercai di non dare nell’occhio. Avrebbe chiesto a me il biglietto per prima, visto che ero proprio lì vicino? Oppure proprio per questo mi avrebbe ignorata? Cercai di dissimulare i miei timori e tentai di concentrarmi di più sul mio blocchetto ma proprio non mi riusciva. Mi venne in mente un piano geniale: suscitare compassione in lui, facendogli capire che avevo già i miei problemi così quando avrebbe scoperto che non avevo il biglietto, non mi avrebbe fatto la multa. Iniziai a sbuffare e cercai di fissare un punto tanto intensamente da lacrimare. Iniziai a tirare su con il naso, ad aprire e chiudere il quaderno e sospirare guardando l’orologio. Iniziai a sudare e mi aprii la giacca per il caldo. Il signore pelato si voltó e mi guardò per un attimo, poi mi disse: “scusi se la disturbo signorina, ma indossa il maglione al contrario”.

Un paio di fermate dopo, il signore pelato scese, senza chiedere il biglietto a nessuno: non era affatto un controllore. Mentre lo seguivo con lo sguardo, mi resi conto di essere molto più in ritardo di prima giacché avevo perso la mia fermata, quella dell’università.

Bussai alla porta. Quando mi trovai davanti il professore, ero in un bagno di sudore ed avevo il fiatone, così che ci misi qualche minuto a spiegargli che non riuscivo a trovare l’aula dell’esame e che avevo percorso i quattro piani dell’università in lungo e in largo prima di capire che l’aula era quella al piano seminterrato. Il professore sembrò non volerne sapere nulla, mi disse che i ritardi non potevano essere tollerati, che non eravamo più dei bambini, che gli universitari devono avere la testa sulle spalle ed altri bla bla bla di cui non mi curavo più, preoccupata com’ero di essere puzzolente per il sudore e che il professore si accorgesse della puzza. Cercai di intenerire il mio sguardo e di sdrammatizzare spiegando al professore che perfino la letteratura era costellata di autori che erano soliti fare ritardo. Il professore restò un momento in silenzio, poi sospirò e mi disse: “d’accordo, mi dia il documento che iniziamo!”.
Lo cercai nel portafoglio, e poi nelle tasche della giacca e del pantalone, ma più frugavo nella mia borsa e più diventavo consapevole che avevo perso i documenti mentre raccoglievo in fretta le mie cose sul tram per scendere alla fermata dopo quella del pelato.
“Si ripresenti al prossimo appello.” Disse il professore spazientito e mi richiuse la porta in faccia.

Mentre aspettavo il caffè al bar dell’università, vidi da lontano quel ragazzo carino che avevo incontrato tempo prima ad un altro esame. Erano passati mesi dall’ultima volta che l’avevo visto. Mi misi a fissarlo da lontano, pensando se fosse il caso di chiedergli il numero di telefono o perlomeno di farci una chiacchierata a tu per tu. Non sapevo che fare, lo vedevo parlare con altre persone ed intimorita dal gruppo, non osai avvicinarlo. Quando mi girai di scatto per controllare a che punto fosse il mio caffé, il cameriere era ormai al mio tavolo ed il mio gesto improvviso, gli fede cadere il vassoio dalle mani: il caffé mi si rovesciò tutto addosso. Mi pulii alla bell’e meglio con dei tovagliolini di carta, in mezzo alle mille scuse del cameriere. Quando mi rigirai verso il ragazzo carino, lui ed il suo gruppetto erano spariti.

Quando salii sul tram per tornare a casa, mi sedetti con una pesantezza addosso che avrei potuto fare un buco nel pavimento. Le porte del tram che si aprivano e chiudevano ad ogni fermata, mi soffiavano aria fredda addosso e mi ricordavano che raramente avevo avuto giornate peggiori di quella. Mentre fissavo le persone che salivano e scendevano dai gradini del tram, vidi lui, il ragazzo carino, che entrava e percorreva il corridoio, verso di me, ma pensai che non mi avesse notata. Guardai fuori dal finestrino per evitare il suo sguardo ma incontrai il mio riflesso dai capelli sconvolti e le macchie di caffè sui pantaloni così sperai che lui non mi rivolgesse affatto la parola: non ero davvero in condizioni di sedurre nessuno. Quando mi girai di nuovo, lui era seduto sul sedile accanto al mio, mi sorrideva, “ci si rivede!” mi disse, ed io arrossii.

Mentre mi preparavo la cena quella sera – infilavo un cordon bleu nel microonde – pensai a tutto quello che ci eravamo detti. Avevamo parlato quasi solo di università, di professori e programmi d’esame, ma nei suoi occhi si vedeva un entusiasmo per ciò che studiava che mi faceva venire voglia di rimettermi immediatamente sui libri per studiare a mia volta. Mentre parlava delle poesie di Wordsworth e Keats, i suoi occhi brillavano come se il suo animo non necessitasse di altro che di letteratura per poter fiorire ed io mi sentii inebriata dal suo ricordo e da ciò di cui avevamo parlato. D’un tratto mi resi conto di non avergli chiesto il numero di telefono. Mi sentii ripiombare in un’angoscia profonda, e mi maledissi per la mia disattenzione, poi pensai che era sceso dal tram poche fermate prima della mia e per questo non doveva abitare troppo lontano dal mio quartiere. Non sarebbe stata l’ultima volta che lo vedevo, ne ero certa. “Domani andrà meglio”, dissi a me stessa sottovoce e tirai fuori il cordon bleu dal microonde.

QUESTO RACCONTO É PARTE DELLA “TRILOGIA DELL’UNIVERSITÀ”: clicca qui per leggere la parte 3.


Charlie Foo

Autrice di due romanzi,"Seasons"(2017), "Fuga da Gardenia" (2020), e un saggio su Cenerentola (2022), Charlie ama l'avventura, i viaggi e la cioccolata calda. Ha fondato il sito CharlieFoo.it nel 2014.