La guaritrice

di Edith Joyce |

The Fairy Nurse


Molti anni fa, una donna aveva piantato un biancospino nel retro del suo piccolo cottage e lo aveva cresciuto fino a farlo diventare un luogo di ristoro per molti abitanti del piccolo popolo che accorrevano lì a ballare sulle note del maestrale insieme alle lucciole nelle notti terse d’estate. La donna morì prematuramente a causa di un morbo incurabile che stava decimando il villaggio quando sua figlia, Agatha, aveva appena dodici anni. Da quel giorno, la bambina si dedicò giorno e notte a studiare l’arte della medicina su libri vecchi e impolverati. Era ormai solita uscire la mattina presto, alle prime luci dell’alba, e andare per i boschi ancora gelidi a cercare piante officinali che poi portava nel suo studio per analizzarle, studiarle e trasformarle in unguenti maleodoranti, pozioni sulfuree e olii.

Dal giorno della morte di sua madre erano passati almeno quattro anni, e Agatha non era riuscita ad ottenere niente, neanche a curare una piccola puntura di zanzara che, al contrario, si era fatta più grossa e più rossa di prima. Eppure voleva aiutare il prossimo e continuava a lavorare arduamente per cercare le formule giuste per i suoi medicinali. Le fate, eternamente grate alla madre di Agatha per aver regalato loro un luogo di pace e allegria, osservavano spesso, dai rami del biancospino (di cui Agatha aveva continuato assiduamente a prendersi cura) la piccola fanciulla all’opera. Impietosite davanti ai suoi innegabili fallimenti, ma sinceramente stupite dalla sua determinazione, discussero a lungo per decidere se donare, o meno, ad Agatha capacità magiche di guarigione. Alcune, tra le fate più anziane, erano assolutamente contrarie poiché temevano, e a ragion veduta, la bramosia e la cupidigia degli esseri umani. Si riunirono quindi sui rami del biancospino davanti casa di Agatha, e iniziarono animatamente a discutere.
«Un umano che può curare qualunque malattia cercherà di tendere verso l’immortalità» obiettavano alcune.
«Userà il suo dono per arricchirsi» obiettavano altre.

Andarono avanti per ore a discutere, e fu solo alla fine che decisero di mandare me per testare il suo cuore. All’epoca ero uno studente piuttosto ribelle dall’accademia d’arte del concilio fatato, da cui ero stato sospeso – ed ero in attesa di giudizio – per aver dipinto un quadro estremamente offensivo e sfrontato, secondo le parole della direttrice. Avevo semplicemente dipinto un essere fatato che dormiva abbracciato a un’umana sotto un cespuglio di biancospino. Era un bel quadro, devo ammetterlo. Avevo usato il verde e l’oro in maniera magistrale, e la mia tecnica non poteva negarla di certo nessuno. Nonostante ciò, non è novità che le unioni ibride non siano ben viste dalla comunità, e per quanto in molte contee umani e membri del piccolo popolo vivano in completa armonia, un matrimonio non è mai accolto con gioia da nessuna delle due parti. Gli umani diffidano di noi fate e del nostro carattere effimero e labile. Gli umani ci temono, in fondo, così come temono che la nostra ira si abbatta su di loro ed è per questo motivo che cercano di entrare nelle nostre grazie lasciando sui loro davanzali torte di mele, dolcetti alla cannella, noci, biscotti e una piccola fiaccola accesa per guidarci verso queste leccornie. L’ira di una fata a cui è stato mancato di rispetto è, infatti, pari alla forza di una donna tradita. Noi creature del piccolo popolo, al contrario, per quanto possiamo prendere in simpatia, e talvolta perfino proteggere gli esseri umani, li riteniamo in ultima istanza inferiori e triviali.

Va detto, certamente, che le nuove generazioni sono più aperte, e cercano più spesso un rapporto più genuino con gli esseri umani. In realtà, ciò non fa altro che attirare su di loro l’ira delle fate più vecchie che continuano a cercare di inculcare nella testa di tutti noi, fin dalla nascita, l’idea di essere al di sopra di ogni altro essere vivente che calchi questa terra. Sopra di noi, a cui portare rispetto, c’è solo l’aria, la terra, il fuoco, l’acqua. Tornando al perché io sia finito, mio malgrado, in questa storia, avrete ben capito che il mio quadro destò non poca indignazione, e per qualche giorno non si parlò di altro nell’accademia. La direttrice e il resto della commissione rimasero nascoste nella tana di uno scoiattolo per bene cinque giorni a sorseggiare tè d’albicocca mentre decidevano quale dovesse essere la mia sorte.

Non riuscirono a prendere una decisione unanime – e l’obbligo di prenderne una è di fatto la ragione per cui le discussioni nel piccolo popolo durano così tanto – e così decisero di rimandare il tutto. Proprio mentre si stava decidendo se Agatha meritasse o meno di diventare una guaritrice, la direttrice ebbe un’idea e tutti furono concordi nell’accettarla. Così, fui convocato in quella riunione. Rimasi sotto al biancospino, e guardavo le fate sopra di me che mi rifilavano sguardi minacciosi. Potevo addirittura intravedere sotto la gonna della direttrice e delle altre insegnanti, ma voltai la faccia da un’altra parte sia perché la vista non era delle migliori, sia perché se mi avessero scoperto qualcosa di orribile e irreparabile mi sarebbe accaduto. Non sapevo, in ogni caso, cosa sarebbe accaduto poco dopo.

«Ciaran, benvenuto» iniziò la direttrice, con aria austera. «Se il tuo cuore desidera essere ammesso di nuovo all’Accademia, hai un compito da portare a termine».

Aveva i capelli grigi raccolti in una coda bassa, nella quale erano intrecciate delle perle rotonde e brillanti. Il suo portamento era elegante, gelido, la sua voce fredda e rigida e i suoi occhi ghiacciati come le acque dell’isola di Toraigh. Ovviamente, per me studiare all’Accademia era di vitale importanza poiché l’arte era quanto di più amassi al mondo, e in nessun altro luogo, se non quello, avrei potuto apprendere i segreti più profondi della pittura.
«Di cosa si tratta?» domandai, con la voce tremante.
«Per questa notte sarai ratto» mi rispose, come era sua abitudine, con un parlare solenne. Rimasi in silenzio, attonito, così che lei ricominciò a spiegare.
«Si tratta di decidere se la piccola Agatha meriti o meno il dono della guarigione. Tu sarai ferito e ti avvicinerai a lei, per vedere se il suo cuore è in grado di provare compassione perfino davanti al più sudicio degli animali.»
«C’è altro?» chiesi ancora.
«Sì» sentenziò la direttrice, e continuò a spiegare. «Quando – e se – lei ti guarirà, tornerai alla tua forma antropomorfa ed è sotto queste sembianze che ti presenterai a lei. Le dirai di essere un ricco mercante, trasformato in ratto per vendetta da una vecchia fattucchiera invidiosa della tua bellezza, o qualunque altra balorderia ti venga in mente, e ti offrirai di ripagare le sue cure con cento sacchi d’oro».
«E se dovesse decidere di non curarmi?» mi tremò la voce, al solo pensiero. «Morirai dissanguato, in forma di ratto, e non avrai neanche una sepoltura tra quelli del nostro popolo».

Fu una sentenza, icastica e cruda, più che una risposta. La direttrice svanì in una nuvola grigia e argentata, insieme al resto dei membri della commissione e mi lasciò ai piedi di quel biancospino, solo, con il terrore che mi divorava il petto.

Mentre facevo ritorno verso casa cercavo di pensare a un modo per evitare quella sorte, ma se avevo imparato qualcosa negli anni vissuti nella comunità del piccolo popolo era quella di non inimicarsi una fata anziana, specialmente nel caso in cui essa sia anche la direttrice dell’Accademia d’arte che intendi continuare a frequentare. Rimuginai a lungo, mentre il sole si tuffava pian piano oltre l’orizzonte. Per un attimo mi balenò in testa perfino l’idea di rivolgermi agli gnomi, più benevoli e magnanimi, e farmi fabbricare un incantesimo contrario che potesse farmi ritornare alla mia forma nel caso in cui la ragazzina decidesse di ignorare le grida di dolore di un topo, ma era ormai troppo tardi, e se la direttrice lo avesse scoperto, mi avrebbe probabilmente trasformato le mani in rami così che non avrei mai più potuto dipingere. Proprio mentre fantasticavo sui se e sui ma di un futuro prossimo e abbastanza incerto, sentii il mio corpo trasformarsi improvvisamente. Nel giro di pochi istanti, le mie mani, prima magre e lunghe, abituate a maneggiare pennelli, si andavano trasformando in piccole e tozze zampette. I miei occhi azzurri e intensi si facevano minuscoli e brillavano di una inquietante luce rossa. Annusavo l’aria intorno a me dalle mie nuove narici e sentivo un odore insopportabile e pungente di sangue che scorreva, senza fermarsi, dalla mia pancia ferita, rivestita di un manto di peli grigiastri. Scappai via, diretto verso casa di Agatha, nelle cui mani giaceva ora irrimediabilmente il mio destino. Respiravo affannosamente, e tentavo di gridare, o di parlare, ma dalla mia bocca non uscivano altro che squittii acuti e fastidiosi che perfino le mie stesse orecchie facevano fatica a sopportare.

Vidi Agatha camminare lentamente sul piccolo sentiero di ciottoli che conduceva al cancelletto del suo cottage. Era molto bella, questo va ammesso. Aveva i capelli legati in una treccia bionda, lunga e voluminosa, e indossava un abito che le sfiorava le caviglie, con tanti fiori azzurri e gialli ricamati a mano. Sul braccio destro, portava un piccolo cestino di vimini da cui s’intravedevano gambi di fiori e foglie coperti da un panno di lino color avorio. La seguii, infilandomi tra le sue gambe affinché mi potesse notare. Agatha sobbalzò e gridò per lo spavento, e lì ebbi seriamente paura che la mia sorte fosse ormai decisa. Cominciavo a non vedere più bene, e tutto davanti a me iniziava a immergersi in una foschia densa e scura. Ebbi il terrore della morte; la sentivo vicina, potevo annusarla. Per fortuna, però, non appena Agatha si riprese da quell’attimo di sgomento, si chinò gentilmente su di me, appoggiando le mani sulle ginocchia. Mi scrutò per un po’ e riuscii a intravedere i suoi bellissimi occhi verdi. In quel momento, ogni dubbio si diradò, come per magia, come quando dopo una tempesta torna il sole. Mi avrebbe curato, poiché quegli occhi non erano capaci di cattiveria, ma solo di gentilezza e disinteressato altruismo. Così mi abbandonai, affidandomi a lei, che mi prese tra le mani con la delicatezza con cui si spalma il burro su una fetta di pane caldo e mi condusse, correndo, dentro la piccola abitazione. Mi stese su un tavolo di legno scuro e iniziò a preparare vari intrugli dalle sue boccette. Sminuzzava piante, aggiungeva dello sciroppo d’anice, riscaldava tutto con il calore di una fiamma accesa.

«Sbrigati, Agatha» pensavo io «poiché qualunque cosa preparerai funzionerà, perché sei protetta dalle fate».

Non poteva sentirmi, ovviamente, e io ero ormai ero esausto e senza forze quando lei si voltò di nuovo verso di me con una piccola boccetta tra le mani che conteneva un liquido violaceo. Agatha guardò meglio il suo intruglio e si rese conto che iniziavano a comparire al suo interno striature dorate e brillanti, e non le servì molto tempo per capire che era stata benedetta dalle fate.
«Le fate hanno deciso di donarmi il dono della guarigione» disse, mormorando tra sé e sé, incredula, come se, solo dicendolo potesse davvero diventare reale. Aprì il contenuto della boccetta e ne versò un po’ sulle sue mani, poi me lo strofinò sulla pancia e, lentamente, la ferita cominciò a rimarginarsi e la foschia fitta che era davanti ai miei occhi si diradò, lasciandomi ammirare pienamente la bellezza di quella fanciulla gentile che rimaneva chinata davanti a me. Ora le sue mani erano unite davanti alla bocca, stupita, senza riuscire a credere di aver avuto successo in una guarigione. Quello stupore fu talmente grande che fu meno meravigliata quando mi vide assumere una forma finalmente antropomorfa. Si ritrovò, così, un ragazzotto seduto sul tavolo, con la faccia imbarazzata e gli occhi colmi di gratitudine. Mi ripresi ben presto, poiché dovevo portare a termine quanto la direttrice mi aveva chiesto. Assunsi una posa più elegante, più consona a un ricco mercante, mi schiarii la voce e iniziai a raccontare la storia che mi ero inventato.

«Grazie di avermi riportato alla mia forma, fanciulla. Il mio nome è Ciaran, e commercio monili e pietre preziose». Sul mio nome, almeno, non avevo mentito. Agatha cominciò a balbettare, imbarazzata, e a passarsi le mani dalla fronte ai capelli. «Non posso crederci,» continuava a ripetere «se solo avessi fallito, io…».

«Ma non lo avete fatto.” La interruppi. “Vogliate accettare la mia generosità. Vi ripagherò tanto oro quanto è il vostro peso.»
«No» disse prontamente Agatha, scuotendo la testa.
«Perdonatemi. Mi rendo conto che è un’offesa, essendo voi leggera come l’aria di settembre» sibilai, come un serpente tentatore, tentando di farla cedere. «Posso offrirvi molto di più»
«No» disse ancora, e io riuscii a stento a trattenere un sorriso di felicità. Il piccolo popolo le avrebbe confermato il dono, e sarebbe stata per sempre una guaritrice con la benedizione delle fate. Mi offrì una tazza di tè, per riprendermi, e la bevemmo insieme, parlando di vita, sogni, speranze. Pensai che era veramente bello vedere qualcuno che credesse ancora in qualcosa con tanto ardore. Provai quel sentimento che una fata prova almeno una volta nella vita nei confronti degli umani: invidia.

Mi resi conto che sarebbe diventata un’ottima guaritrice, e che ciò che le era mancato fino a quel momento era solo la tecnica, ma che quanto di più importante lo aveva già, ed era il suo cuore. Iniziai a guardarmi intorno e a respirare l’odore stantio di zuppa riscaldata, mentre sul tavolo giocavo con le dita con delle briciole di pane raffermo. Era una povertà dignitosa, la sua, ma pur sempre povertà. In effetti, era ormai tempo che si dedicava alle arti mediche, e non andava a scuola. Non aveva un padre da molto tempo, e da quando la madre era morta, quattro anni prima, non aveva che il minimo per riuscire a sopravvivere. Sapevo per certo che ogni tanto andava ad aiutare il fabbro con dei lavoretti, ma mi piangeva il cuore al solo pensiero che mani così esili potessero venire a contatto col fuoco, i crogioli e l’acciaio, poiché dita del genere erano fatte solo per accarezzare fiori e la superficie dei laghi. E la tragedia, in tutta questa storia, stava nel fatto che, anche ora che aveva ricevuto dalle fate il dono della guarigione, non avrebbe potuto farci molto dal momento che, secondo le condizioni che aveva stabilito il concilio, nel momento in cui si fosse fatta pagare, i suoi poteri sarebbero svaniti. Improvvisamente mi resi conto che, forse, sarebbe stato meglio se avesse accettato di ricevere in cambio il suo peso in oro, e la direttrice glielo avrebbe dato. Di certo non si poteva discutere sul fatto che fosse di parola.

«Perché non accettate in cambio il mio oro, Agatha?» tornai a domandarle, prendendo la sua mano. Era piccola e morbida, tanto che sembrava che non avesse accarezzato altro che petali per tutta la sua vita. «Potreste andare via da qui, cercare fortuna da un’altra parte, magari in Francia. Sapete, so che ci sono molti guaritori lì. Alcuni stanno scoprendo l’arte del magnetismo. Frequentano i circoli accademici più prestigiosi, vivono agiati e mangiano caviale accompagnato da vini frizzanti».
Agatha scosse la testa, poggiando la sua mano sopra la mia, così che le nostre dita si ritrovarono inaspettatamente intrecciate in un tenero nodo. «Vi ringrazio, Ciaran. Ma il mio scopo nella vita non è passeggiare per le strade di Parigi. Qui sono nata e questa è la mia gente. Non ho salvato mia madre, ma posso salvare la madre del fabbro, la nonna del droghiere, la sorella del falegname e il padre della piccola fioraia a cui stanno morendo anche i gerani. Il denaro è una male incurabile, Ciaran. Inquina i rapporti umani e li imbriglia nella sporcizia del metallo. Perché dovrei farmi pagare per qualcosa che io per prima ho ricevuto in dono? E con quale coraggio chiedere un compenso a chi soffre, a chi rischia la vita, o a chi gli sta accanto? La medicina è la mia vocazione; e chi verrà a bussare qui, all’ultimo cottage prima del confine di Athlone, troverà la cura per i suoi mali, qualunque essi siano e chiunque esso sia».

Tentai di insistere ancora, inutilmente. Il giorno seguente, Agatha portò a termine con successo la prima guarigione nel paese dal morbo. La voce si sparse veloce come scorre l’acqua al fiume e in centinaia accorsero a bussare alla sua porta. A tutti offriva, oltre che le sue cure, un tozzo di pane, un po’ di zuppa calda e quello che restava delle conserve che aveva fatto sua madre e che la sera lasciava per le fate sul suo davanzale. Io guardavo la scena dal solito biancospino, seduto su un ramo, sospirando. La direttrice si materializzò accanto a me, comunicandomi che il mio errore era stato perdonato e che avrei ricominciato a seguire le lezioni dell’Accademia l’indomani stesso, ma che non voleva mai più vedere quel quadro, e che avrei dovuto bruciarlo o farlo sparire nel modo che più avessi ritenuto opportuno. La invitai a guardare dentro il cottage, oltre la patina di polvere che si era accumulata sul vetro di quella piccola finestrella quadrata. Agatha si muoveva freneticamente, e non aveva neanche un assistente che la aiutasse nelle più banali mansioni.

Mi apparve incredibilmente più vecchia, come se le rughe avessero prematuramente deciso di solcare il suo viso giovane e fresco. Sembrava anche più gobba, i suoi occhi verdi meravigliosi che erano riusciti a stregare anche il mio cuore impaurito di ratto, erano più spenti. La stanchezza la divorava dentro, e probabilmente anche la fame, dato che ero rimasta a osservarla per tutta la notte e non aveva messo in bocca neanche un tozzo di pane, ma continuava a mettere da parte provviste per i malati. La direttrice scosse la testa, severa, ferma come un albero maestro sulle sue posizioni. Un dono di fata è sacro, e l’umano che lo mette a lucro è un peccatore, e perde il suo dono. La fata sparì, e io rimasi a pensare mentre il vento mi scompigliava i capelli ricci. In un momento, seppi qual era l’unica cosa giusta da fare. Saltai giù dal biancospino con un balzo agile e corsi veloce sulle brughiere argentate per andare a cercare Finn, un giovane leprecauno, che appena mi vide mi si piazzò davanti con le braccia incrociate e le gambe divaricate in una posa buffa e marziale.

«No» mi disse, senza nemmeno aver ascoltato quanto avessi da dirgli. «Dimenticatelo, la pentola è mia».
«Ti prego, Finn» gli dissi «è per una giusta causa». Il leprecauno sembrò vacillare, poiché il suo cuore era di burro e le sue intenzioni buone, ma non s’arrese.
«No, ho detto che è mia».
«Te ne porterò una più bella» gli promisi «una pentola d’oro che potrai riempire con dell’oro a sua volta. Ci pensi?».
A Finn brillarono gli occhi, e iniziò a saltellare e a battere i piedi, e a gridare, e a cantare. Indossava delle calze bianche e verdi a righe e un panciotto marrone con bottoni dorati dal quale tirò fuori una pipa e la fiaschetta di whiskey. Così, dopo aver brindato all’aria e aver trangugiato un bel po’ d’alcol mi si avvinghiò alla coscia come un’edera rampicante. «Oh, grazie. Grazie, amico mio.» disse, e subito si mise a per tirare fuori la pentola d’oro. La trattenne ancora per un po’ tra le sue braccia, cullandola e accarezzandola come se fosse un bambino. Prima di lasciarla nelle mie mani, mi rifilò uno sguardo minaccioso. «E che sia davvero per una giusta causa» disse, imbronciato, per poi lasciarla andare senza ulteriori reticenze. «Giustissima, Finn. Grazie!»

E così tornai al cottage di Agatha, fermandomi prima a casa mia lungo la strada. La folla continuava ad accalcarsi attorno al cottage e le grida di dolore di chi era in attesa laceravano il cielo gravido di pioggia violacea. Salii sul tetto impagliato e mi calai giù dal caminetto senza far rumore, piombando giù nella sua camera, al piano superiore dell’abitazione. Lì, lasciai la pentola d’oro e il mio quadro che la direttrice aveva detto di far sparire, e sospirai felice. Feci appena in tempo a scrivere un bigliettino: «non è altro che un dono» e sparii di nuovo da dove ero venuto. Con quei soldi, Agatha riuscì a ristrutturare il cottage, così che potesse accogliere più letti e lasciare la possibilità, a chi stava male, di passare lì la notte. In breve tempo, la sua casa si trasformò in un ospedale rinomato, e molti malati accorrevano da altre parti dell’isola. Ma ciò che mi faceva sorridere era che i francesi, stregati dai racconti sulle prodigiosi arti di quella ragazzina irlandese, avevano mandato al diavolo il magnetismo, il caviale e i vini frizzanti ed erano accorsi dalla Francia per apprendere i segreti di quella nuova arte che mai avrebbero potuto comprendere davvero poiché non credevano, né conoscevano il piccolo popolo e i doni che è in grado di fare ai puri di cuore.


Edith Joyce

Innamorata del realismo magico, Edith racconta le storie del piccolo popolo perché non vadano perdute. Sogna un'Irlanda unita.