Andare via

di Edith Joyce |


Mo chuisle
chiudi gli occhi
ché il gallo dorme già
Mo chuisle
dormi ancora
finché non si sveglierà
Mo chuisle
dammi amore
ogni giorno che verrà
se la notte porta consiglio
essa mai ci separerà


La vidi per la prima volta seduta a un tavolino del più antico bar di Galway. Io sfogliavo l’Irish Times e ordinavo del caffè amaro, mentre lei sorseggiava del tè da una tazza in porcellana che aveva lo stesso colore della sua pelle. La donna teneva gli occhi bassi, mentre beveva. Sembrava quasi che si stesse specchiando in quel tè nero come il lago di Sligo. Io la spiavo abbassando leggermente il giornale, con la discrezione e il rispetto che si porta ai parenti di un recente defunto. Quando ebbe finito di bere, e io avevo finito di leggere la pagina culturale per la terza volta, rivoltò la tazza sul piattino, di porcellana e a fiori anch’esso, e stette attentamente a guardare ciò che il destino le rivelava. Improvvisamente, l’attrazione che avevo provato per lei svanì di colpo. A me, che ero – e sono ancora – chimico, abituato a reazioni e relazioni causali tra gli elementi e i composti, il suo leggere il destino nei fondi del tè apparve risibile.

Mi rimisi a leggere il giornale per qualche istante, ma ebbi solo il tempo di girare la pagina e ascoltare il garrito di un gabbiano infelice, che la donna scoppiò in lacrime ed io mi innamorai di nuovo di lei. Era un pianto vero, più vero delle cellule che osservavo in laboratorio, più tangibile, tagliente. Mi feriva le orecchie e l’anima. In quel momento appresi per la prima volta il suono che fa la disperazione. Le lacrime – che mi immaginai calde e dolci, diverse dalle lacrime di qualunque altra donna – le scorrevano copiose e veloci sul viso disperato. Avevo già sfilato un fazzoletto di seta azzurra dal taschino del mio abito in principe di Galles quando la donna si alzò dalla piccola sediolina in ferro – l’unica del locale, che sembrava avessero messo lì apposta per lei – e, dopo aver lasciato due euro sul tavolo, raccolse frettolosamente la sua sciarpa di lana e la sua borsetta di cuoio e fuggì via in direzione del molo. La curiosità mi stringeva il petto, mentre osservavo quella donna dai capelli color del grano sparire – e in quel momento credetti per sempre.
Aspettai che la sua figura svanisse del tutto, che i miei occhi non potessero più inseguirla, come in un sogno da cui ci si risveglia sconvolti e sudati. Quando di lei non rimase che un intenso profumo di biancospino – che forse aveva comprato nella più costosa boutique di Belfast – mi alzai e raggiunsi il tavolino dove era seduta. Osservai le macchie che il tè aveva creato sulla porcellana del piattino, quelle che tanta disperazione avevano generato in lei, e il mio occhio scientista altro non vide che chiazze scure, anonime e totalmente determinate dal caso. Mi voltai e la cercai di nuovo con lo sguardo, aspettandomi di trovarla di nuovo lì, di nuovo seduta, di nuovo bellissima e con le labbra rosse piegate in un sorriso. Ma la mia storia – almeno fino a quel momento – non era stata altro che un complesso accavallarsi di banalità noiose. Infatti, incontrai solamente gli occhi del cameriere, che dovette pensare che stessi andando via senza pagare, tant’è che mi si piazzò davanti con le braccia conserte, con un’aria naturalmente truce ma che i suoi capelli diabolicamente rossi contribuivano ad affermare. Pagai, ovviamente, e lasciai anche un’abbondante mancia, per scongiurare l’ipotesi che l’uomo decidesse di sferrarmi un pugno in faccia. Il vento gelido iniziò a far volare via i fazzolettini di carta dai tavoli, e l’uomo fu costretto a smettere di curarsi di me e ad augurarmi, bofonchiando con un forte e marcato accento del sud, una buona giornata.

E lo fu davvero, una bella giornata. Il vento mi portò un inaspettato regalo che si fermò ai miei piedi e che non esitai neanche per un istante a raccogliere. Non era altro che un pezzo di carta strappato, che portava i segni di una grafia ordinata e fluida. “raggiungimi al porto”. Le nuvole mi sembrarono improvvisamente più dense e pesanti del solito. Le sentivo vicine, pendermi sopra la testa come un presagio tanto opprimente quanto ineluttabile. Vi ho detto, la mia vita non è stata altro che il susseguirsi di scialbe e consuete quotidianità e la mia felicità fino a quel momento, come disse lo scrittore francese Alphonso Karr, non era stata altro che l’accumularsi di tante disgrazie evitate. La mia salute era stabile, il mio lavoro soddisfacente, i miei genitori vivi, e il fatto che non avessi mai lontanamente pensato all’idea di sposarmi mi aveva di fatto protetto da molte potenziali miserie dell’anima. Quel giorno, il 21 dicembre del 1999, ogni certezza che avevo mai avuto, ogni pretesto dietro il quale avevo nascosto la mia vigliaccheria andò in frantumi, insieme, più in generale, a tutta la mia vita per come l’avevo vissuta fino a quel pomeriggio. Infilai il pezzo di carta nel taschino e mi incamminai verso il porto.

Se guardo indietro nel tempo e mi guardo camminare per Shop Street in quel giorno d’inverno, mi rendo conto che non avevo dubitato neanche per un istante che quel biglietto me lo avesse lasciato lei, sebbene, di fatto, me lo ero ritrovato tra i piedi come una vipera in un sentiero di montagna, e non ero neanche certo di averlo visto cadere dal tavolino dove era seduta. Di conseguenza, quando arrivai al porto, non fu sorpresa quella che provai vedendola a gambe incrociate, con lo sguardo verde fisso verso il mare increspato. Mi avvicinai lentamente, come ci si avvicina alle volpi nel bosco, quasi come se avessi paura di spaventarla con un passo troppo pesante o un gesto troppo avventato. Rimasi lì in piedi, accanto a lei, abbastanza lontano da non farla fuggire, abbastanza vicino perché potesse accorgersi della mia presenza. Infatti mi guardò, per un istante, per poi tornare a perdersi con i suoi occhi e i suoi pensieri tra l’orizzonte e il cielo gravido di pioggia. Provai una forte fitta allo stomaco e in gola mi nacque un nodo gordiano che mi impediva di parlare. Per fortuna, a farlo ci pensò lei.

«Devo andare» disse.

Non a me, lo disse e basta, continuando a guardare davanti a sé. Mi costrinse a portare lo sguardo nella stessa direzione, poiché dava l’impressione che lì ci fosse qualcosa di cruciale, di importante, di meraviglioso. Non c’era niente, se non quello che il porto di Galway regala ogni giorno agli occhi di chi rivolge il volto verso ovest. Per la seconda volta – la prima fu quando ascoltai il suo pianto – mi trovai disorientato da quella donna. Avevo l’impressione che lei riuscisse a vedere qualcosa che io non vedevo. Riusciva a vedere gli atomi dell’esistenza, mentre io potevo accorgermi solo di ciò che era più grande di un sasso.

«Dove devi andare?» le domandai, a fatica.
«…via» sentenziò.
«Ma ti ho appena incontrato. E non voglio andare».

Ero disorientato, di nuovo, per la terza volta. Cercai di stringermi più forte che potevo alla realtà, sebbene stare vicino a quella donna mi offuscava la mente, e non riuscivo a seguire un pensiero lineare, ma tutto si intrecciava in una nebulosa densa. Con tutto lo sforzo di cui la mia mente era capace, mi dissi: è pazza. Considerai, inoltre, di portarla all’ospedale, poiché era visibilmente scossa, turbata, in uno stato di disperazione che non avevo mai visto sul volto di nessuno, neanche su quello di Sean quando sua madre morì dissanguata davanti ai suoi occhi per un proiettile sparato dalla polizia.

«Dov’è “via”?» provai a domandarle.
«Vuoi essere felice?» mi rispose, senza rispondere.
«Sì» dissi, ma non volevo dirlo. Lo dissi, e basta. Ricordo ancora quel momento con terrore, e penserete che esagero a dare tutta quella importanza a un “sì” detto d’istinto. Era come se una forza estranea si fosse impossessata di me e avesse risposto al mio posto. Era come se non avessi avuto altra scelta che dire “sì”, in un destino segnato a priori da un dio ossessivo-compulsivo che non può permettersi deviazioni. Era vero, in ogni caso. Volevo essere felice. Chi non lo vuole? Forse solo quelli che lavorano in banca e i poliziotti. Si alzò, aggrappandosi alla mia mano, e io la aiutai a tirarsi su, finché non mi fu così vicina da poter sentire di nuovo l’odore del biancospino.

«Andiamo» mi disse. Così la seguii, senza proferire parola. Mi portò verso il sentiero che conduce alla campagna, la fredda campagna del Connemara, su cui cominciò ad abbattersi un temporale spietato come la mano imperialista degli inglesi. Lei non aumentò il passo, come se la pioggia non potesse sfiorarla né bagnarla. Ma lo fece. Non percorremmo molta strada, ma quella che facemmo fu sufficiente per ritrovarci con i vestiti e i capelli grondanti di acqua. Un tramonto rosso violentò il cielo per qualche istante, facendosi strada tra le nuvole dense. Non molti istanti dopo, il buio cominciò a incombere su di noi, mangiandosi l’ultima luce del sole. Fermò il suo passo davanti a un piccolo cottage con il tetto spiovente dai mattoni ordinati da cui spuntava, proprio al centro, la finestra di una piccola mansarda. Al centro c’era una porta di legno dipinta di verde scuro e ai lati due finestre quadrate. Guardata da lontano quella casa sembrava sorridermi così che, quando la donna aprì la porta, non esitai a ripararmi con lei dalla tempesta. Il fulmine illuminò la stanza di una luce violacea in un istante fugace, prima che lei potessi chinarsi sopra un piccolo tavolo di quercia e accendere una lampada a olio. Aggrottai la fronte e lei, senza guardarmi e senza avermi guardato parlò.

«Qui va sempre via l’elettricità, quando piove».

Un brivido mi percorse la schiena poiché aveva risposto alla domanda che avevo pensato, ma che non avevo mai espresso a parole, ma quando la luce della lampada andò a illuminare il piccolo soggiorno ebbi la certezza che nulla di maligno potesse vivere in lei. La casa era piccola e accogliente, e c’era una culla e una piccola creatura dormiente coperta da un lenzuolo di pizzo color avorio. La tempesta e i tuoni, contro ogni aspettativa, non avevano turbato il suo sonno.

«È tuo figlio?» domandai.
«No» mi disse, e non osai chiedere oltre. Mi prese per mano e mi portò nella piccola mansarda. Cercai di salire le scale silenziosamente, facendo bene attenzione a non far scricchiolare il legno sotto i miei passi.
Lei, invece, non sembrava curarsi del suo incedere, ma allo stesso tempo, non faceva nessun rumore. Ci amammo, per tutta la notte. E fui felice. La amai. E fui amato in cambio. Mi addormentai con le dita nei suoi capelli. Mi sembrava quasi di accarezzare le spighe bollenti sotto il sole d’agosto nelle campagne toscane. A notte fonda mi svegliai, improvvisamente. Il letto era vuoto. Scesi giù nel soggiorno e la piccola creatura piangeva e allungava le braccia in avanti. Mi avvicinai alla culla e iniziai a dondolarla. Sul piccolo davanzale adornato di fiori freschi c’era una piccola lucciola.

Le aprii la finestra poiché sapevo che per lei era ora di andare… via.


Edith Joyce

Innamorata del realismo magico, Edith racconta le storie del piccolo popolo perché non vadano perdute. Sogna un'Irlanda unita.